Giuseppe Ayala a PinkItalia, memoria ed esempio di impegno civile del giudice che processò la mafia

Giuseppe Ayala, memoria ed esempio di impegno civile del giudice che processò la mafia

di Gianfranco D’AnnaGiuseppe Ayala a PinkItalia

Magistrato e gentiluomo. Pubblico Ministero alla Maigret, ironico e risolutivo, Giuseppe Ayala, 71 anni, Peppino per gli amici,  rimugina perennemente qualcosa.

La notizia della morte di Bernardo Provenzano, il padrino dei segreti che si è portato nella tomba la chiave dei misfatti inconfessabili di cosa nostra, lo riporta ai terribili anni di piombo di Palermo.

“Dopo lunga malattia, come si suol dire in questi casi, si è spento Bernardo Provenzano, detto Binnu u tratturi. La notizia – afferma Peppino Ayala – mi ha lasciato del tutto indifferente sul piano umano, ma ha suscitato alcuni ricordi. Pur non avendolo mai incontrato, già una trentina di anni fa sapevo molto di lui, non tutto certo. La conoscenza era avvenuta attraverso la montagna di carte processuali che lo riguardavano. Non so quante ore del mio lavoro gli debbo. Non poche di sicuro. E, comunque, quanto bastava a chiederne e ottenere, nel 1987, la sua prima condanna all’ergastolo”.

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Bernardo Provenzano

Per il magistrato “la figura criminale di Provenzano non è scindibile da quella di Salvatore Riina, almeno sino al gennaio 1993, data dell’arresto di quest’ultimo. Gli atti di Polizia Giudiziaria li definivano luogotenenti di Luciano Liggio, il loro maestro. Assieme inaugurarono una nuova stagione della lunga storia di delitti eccellenti “.

Ayala si accalora e la voce gli si incrina, ma prosegue d’un fiato: “la sanguinaria lista dei servitori dello Stato caduti sotto i loro micidiali colpi è lunga. E ancor di più lo è quella delle vedove e degli orfani. Ma lo è anche quella dei mafiosi rimasti vittime della guerra di mafia scatenata dai due corleonesi agli inizi degli anni ottanta per impadronirsi, a colpi di kalashnikov, del vertice dell’ organizzazione mafiosa. Su un fronte, come sull’altro mai si era registrato qualcosa di simile nell’ultrasecolare storia della mafia siciliana. Volendo provare a impostarne un bilancio, l’unica conclusione è desumibile dai prezzi pagati che sono molteplici. Quello dello Stato, innanzitutto, direttamente e ferocemente colpito dalla perdita di tanti suoi rappresentanti. Dalle famiglie, ovviamente. Ma anche da Cosa Nostra, alla quale i due “luogotenenti” non hanno certo reso un buon servizio, quantomeno per una ragione.

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Totò Riina

E cioè che con l’attacco militare allo Stato per la prima volta si accesero i riflettori su un fenomeno criminale sino ad allora coperto da silenzi e tenebre garantite da un’omertà impenetrabile a tutti livelli, quelli istituzionali compresi. Senza Provenzano e Riina, insomma, sono certo che la lotta alla mafia sarebbe un bel pò indietro rispetto a dove è arrivata.

“La morte di Binnu u tratturi, insomma, da quegli occhi non ha fatto sgorgare molte lacrime” Dice Ayala tirando un lungo sospiro.

Ricordi, esperienze, gli infiniti retroscena del primo storico processo a cosa nostra, amicizie fraterne perdute: Falcone, Borsellino, Ninni Cassarà; ed ancora, il  grande lavoro svolto per smascherare gli intrecci e le contiguità con la mafia, lo strazio dei tanti, troppi, funerali di colleghi, esponenti delle istituzioni, investigatori  assassinati dalle cosche, l’attività parlamentare e gli incarichi di Governo.

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L’omicidio di Ninni Cassarà

Memorie che pulsano quotidianamente nell’animo del giudice che lasciata la toga si é trasformato in scrittore di libri che hanno lasciato il segno:  “La guerra dei giusti“, “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino”, ”Troppe coincidenze. Mafia, politica, apparati deviati, giustizia: relazioni pericolose e occasioni perdute”  tutti editi da Mondadori.

  • Donne di mafia, vittime di padri e fratelli padrini o spesso anche protagoniste dell’evoluzione al femminile dei vertici delle cosche azzerati dalle inchieste antimafia. Che esperienze dirette ricorda e quali le sue valutazioni?

“Non mi sovvengono esperienze personali a proposito del ruolo delle donne nell’organigramma di Cosa Nostra. Mi riferisco alle indagini e ai processi degli anni ottanta. Ho sostenuto l’accusa in molti processi a carico di esponenti di quella organizzazione criminale ma non ricordo una sola imputata donna. C’è, però, un episodio che è rimasto scolpito nella mia memoria.

Durante la celebrazione del noto maxiprocesso, un giorno, ad apertura d’udienza, comparve nella tribuna riservata al pubblico un gruppo di donne vocianti che si rivolgevano, con accenni di autentica disperazione, ai mafiosi presenti in aula. Il messaggio che quelle donne terrorizzate affidavano agli imputati riguardava un loro congiunto, ovviamente mafioso, sospettato di essere pronto a collaborare con la Giustizia. Il sospetto era infondato. L’obiettivo di quella sortita era duplice: rassicurare gli imputati e, al tempo stesso, scongiurare ogni eventuale azione ritorsiva nei loro confronti. Donne intrise di subcultura mafiosa, ovviamente.Giuseppe Ayala a PinkItalia

Negli anni successivi, specialmente a seguito dei duri colpi inflitti a Cosa Nostra dalla Magistratura e dalle Forze di Polizia, è assai verosimile che alcune donne abbiano assunto ruoli di un certo rilievo in seno all’organizzazione, come, peraltro, confermato da alcune vicende processuali. La circostanza non deve suscitare alcuna meraviglia proprio per la indubbia condivisione di quella subcultura di cui ho detto anche da parte del mondo femminile dell’ universo mafioso. Un ruolo di supplenza, lo definirei.”

  • Dal delitto d’onore all’emancipazione. Quante sono cambiate la Sicilia e le altre regioni meridionali? Ci sono ancora enclave di arretratezza?

“La lenta e faticosa emancipazione delle donne meridionali costituisce un dato inoppugnabile. Forse tutto ebbe inizio con la vicenda di Franca Viola.

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Franca Viola

Ne và  dimenticata la dichiarazione di incostituzionalità del delitto d’onore. Detto questo, non  vi é dubbio che rimangono ancora enclave di arretratezza, a mio parere, sparse qua e la a macchia di leopardo. Aprirle alla modernità non sarà facile. Ci vorrà tempo e pazienza, ma sono sicuro che, progressivamente, ne registreremo la loro diminuzione.

  • Quanto ha inciso il traffico di droga nell’exploit internazionale delle cosche siciliane fra gli anni ’80 e 90?

“L’ingresso di Cosa Nostra nell’enorme business del traffico di stupefacenti è databile a partire dalla seconda metà degli anni settanta. Gli enormi capitali lucrati hanno indubbiamente conferito all’organizzazione un enorme potere di condizionamento della vita economica, amministrativa e politica del nostro Paese. Non solo del mezzogiorno, ma anche di estese aree del Nord, imprudentemente ritenute per anni immuni da quel rischio. Non deve, perciò, stupire la stima del fatturato annuo complessivo delle organizzazioni mafiose, stimato in oltre cento miliardi di euro”.

  • L’inversione di tendenza delle istituzioni nei confronti di cosa nostra, rispetto al dopoguerra e fino al maxi-processo del 1986,  e i successi di  inchieste e  indagini antimafia hanno in  parte diluito la morsa delle cosche sull’economia e la società civile. Quanto resta in realtà ancora fare nella lotta contro la mafia? 

“A partire dagli inizi degli anni ottanta dello scorso secolo, la risposta repressiva dello Stato nei confronti delle organizzazioni criminali mafiose ha assunto dimensioni e forza inimmaginabili sino ad allora. I colpi inflitti alle varie mafie le hanno certamente indebolite, ma guai a credere che la fine di quella lotta sia vicina e, meno che mai, scontata. Fermo restando che l’ apparato repressivo va ulteriormente rafforzato, rimane molto da fare su un altro fronte: quello della prevenzione. E’ forse proprio questo il fronte decisivo sul quale, in particolare, misurare l’ effettiva volontà politica di combattere sino al fondo il fenomeno. Occorre comprendere che la sola repressione non è sufficiente. Lo diventa se affiancata da strutture preventive di pari forza ed efficienza. Staremo a vedere”.

  • Quali  i misfatti più oscuri, le stragi, gli omicidi, compiuti dai clan mafiosi e cosa, secondo lei, c’è ancora da scoprire?

“Le stragi del 1992, innanzitutto. Ritenerne responsabile soltanto Cosa Nostra è riduttivo. Per convincersene è sufficiente ricordare quanto affermò Giovanni Falcone dopo il fallito attentato dell’Addaura del giugno 1989 a proposito dei centri occulti di potere e delle menti raffinatissime capaci anche di orientare le scelte di Cosa Nostra. Se quello schema è valido, come fermamente credo, per quell’attentato, qualcuno dovrebbe spiegarmi perché non dovrebbe esserlo per le stragi del maggio e luglio 1992.  Detto questo, non sarà facile, se mai ci arriveremo, trasformare quello schema in verità processuale. Ma chissà! “

  • Ricordi inediti di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Ninni Cassarà, Nino Caponnetto  e degli amici e colleghi, magistrati e investigatori, vittime della mafia nei terribili anni di piombo di Palermo?  

“I ricordi sono tanti e tutti indelebili. Ne scelgo qualcuno. A proposito di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino richiamo la bella fotografia-simbolo di Tony Gentile che li ritrae sorridenti l’ uno accanto all’altro.

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Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

Siamo nella serata del 28 marzo 1992 durante un’iniziativa elettorale a sostegno della mia elezione alla Camera dei Deputati, voluta da Falcone che coinvolse anche Borsellino malgrado la diversità delle sue idee politiche rispetto alle nostre. Come si fa a dimenticare quel gesto di amicizia tanto sincero quanto profondo?

Ninni Cassarà era un grande poliziotto. Un uomo onesto, pulito e capace come pochi è dato incontrarne. Diventammo presto amici. Ci legava un’assoluta, reciproca stima e fiducia. Constatando la sua notevole preparazione giuridica, mi venne del tutto naturale chiedergli: Ninni, come mai non hai mai pensato a fare il concorso per la Magistratura? La risposta fu tranchant: A me piace fare lo sbirro!

E’ ovvio che, a partire dal quel momento, mi rivolgevo a lui nel seguente modo: senti sbirro…. il tutto accompagnato da sorrisi ironici e molto complici.

Il ricordo di Nino Caponnetto è tutto racchiuso in quanto ha scritto su di me nel suo I miei giorni a Palermo, pubblicato  nell’ ottobre del 1992.

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Antonino Caponnetto

Riporto testualmente: “Con Ayala ho sempre avuto e conservo rapporti molto affettuosi. E’ uno dei pochissimi magistrati, forse l’ unico della Procura, sul cui conto non ho mai avuto riserve, con cui ho avuto sempre un rapporto chiaro e limpido. Lo stimo molto”. Più importante di un’onorificenza. O no?

Articolo scritto da Redazione PinkItalia